BIOdiversità agraria - ZOOtecnia biologica - TECnologie per un’agricoltura sostenibile

La suinicoltura italiana agli inizi de secolo scorso

La storia della zootecnia italiana attraverso i documenti

L’allevamento degli animali domestici in Italia: le principali specie allevate, le razze, il resoconto della zootecnia raccontata dalle immagini, dalle cronache e dai documenti storici. 

La suinicoltura italiana, agli inizi del secolo scorso, costituiva uno fra i più importanti rami dell’industria zootecnica.
Prima dell’inizi del primo conflitto mondiale, erano presenti circa 2.500.000 maiali. Va ricordato che a questi dati mancano le popolazioni suine presenti in alcune province del triveneto non ancora annesse.
Dopo il conflitto la popolazione salì verso i 3 milioni di capi. Nel 1926 la popolazione suina (2.750.000 capi) era all’incirca così suddivisa nelle diverse regioni:
- Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia, Triveneto, Emilia Romagna e Liguria) 1.400.000 capi;
- Italia centrale (Toscana, Umbria, Marche e Lazio) 570.000 capi;
- Italia meridionale continentale (Abruzzo e Molise, Capitanata, Puglie, Basilicata e Calabria) 550.000 capi;
- Italia insulare (Sardegna e Sicilia) 230.000 capi.
Le regioni più ricche di suini erano l’Emilia Romagna, l’Umbria, la Lombardia, le Marche, il Veneto e la Campania.
Le regioni dove erano presenti meno allevamenti di suini erano le Puglie, la Sicilia, la Liguria e il Lazio.
Le modalità di allevamento erano diverse in base al territorio regionale. Lungo l’Appennino e nelle isole erano presenti grandi spazi coperti da boschi di querce o di macchie mediterranee dove il maiale veniva allevato in greggi vaganti, o “morre”, per lo più all’aperto.
Nella pianura Padana invece, l’allevamento del maiale era favorito era favorito dai contratti colonici e dalla disponibilità di alimenti come i cascami dei caseifici, i residui delle fabbriche di birra, delle distillerie, della macinazione dei cereali, della brillatura del riso, ecc. l’allevamento veniva quindi fatto nel “porcile” e condotto con modo industriale. Nella pianura Padana era inoltre molto diffuso l’allevamento familiare.
In pratica all’inizio del secolo scorso nel nostro paese l’allevamento del maiale poteva essere diviso in tre categorie:
- l’allevamento sussidiario del caseificio dove per l’alimentazione venivano utilizzati i sottoprodotti dell’industria casearia;
- l’allevamento all’aperto al pascolo basato sulla “ghiandatura”;
- l’allevamento casalingo dove per l’alimentazione si utilizzavano i residui domestici e ortivi.
In quel periodo le razze indigene Italiane più diffuse erano la Romagnola, la Cinta, la Cappuccia, la Maremmana, l’Umbra, l’Abruzzese, la Casertana, la Pugliese, la Calabrese, la Siciliana e la Sarda.
Altre razze, specialmente nella pianura Padana, erano presenti in piccoli numeri e questo a causa dell’attività di meticciamento e sostituzione svolta dallo Stabilimento sperimentale di zootecnia di Reggio Emilia che già subito dopo l’Unità d’Italia venne incaricato dal Ministero dell’Agricoltura a importare dall’Inghilterra riproduttori di Yorkshires e Berk-shires. Queste importazioni, condotte dal Direttore dello Stabilimento sperimentale (Prof. Zanelli) furono utilizzate specialmente in pianura Padana per il meticciamento delle razze indigene per ottenere maiali con maggior attitudine all’ingrassamento, maggior precocità e con uno scheletro più ridotto.
All’inizio del secolo scorso comunque erano ancora presenti pochi esemplari di razza Cavour e Garlasso (Piemonte), Milanese, Lombarda, Bergamasca, Bresciana e Lodigiana (Lombardia), Parmigiana e Modenese (Emilia), Friulana nel Triveneto.

Maiale in bronzo ritrovato a Pompei e conservato nel Museo Nazionale di Napoli

 

Allevamento dei maiali nel Varesotto ad inizio secolo scorso

 

Rastrelliera per foraggi

 

sopra e sotto: alcuni esempi di porcilaie utilizzare agli inizi del secolo scorso

 

La suinicoltura italiana agli inizi de secolo scorso